Valerio Catullo doveva essere un bel giovanotto, quando da Verona venne a Roma ed entrò nei salotti dotti e corrottissimi dell’aristocrazia repubblicana. S’innamorò di Lesbia, che forse è Clodia della Pro Celio di Cicerone, una donna di buon livello culturale e stile, e di costumi dissoluti.
Gli parve un facile ed elegante gioco di società, finché non divenne amore e passione, ma senza affetto: “Amare magis, sed bene velle minus”. Era un amore violento, oscuro, geloso, tradito; e devastava il giovane con odio e amore assieme.
E intanto l’inutile edonismo diveniva sazietà e noia.
Infine, Catullo avvertì i segni di una cupa depressione del corpo e dell’anima, e rivolge, forse invano, la sua preghiera agli dei. Questa è la triste diagnosi che fa della sua condizione:
hanc pestem perniciemque,
quae mihi subrepens imos ut torpor in artus
expulit ex omni pectore laetitias.
Peste e rovina, che strisciando come intorpidimento fin nel più profondo delle membra, ha tolto la sanità di vita da tutto il mio petto.